Primarie USA: dov'è il cambiamento? Italian Share Tweet Italian translation of Super Tuesday and the U.S. Elections (February 7, 2008) Il periodo elettorale negli Usa è entrato nel vivo ben nove mesi prima che gli elettori si rechino effettivamente alle urne, il 4 novembre. Durante il “Super Tuesday” chi è registrato come elettore è andato a votare nei caucus e alle primarie nel processo che determinerà i candidati presidenti dei partiti principali alle rispettive convenzioni nazionali che si terranno da fine agosto ad inizio settembre. In gran parte delle competizioni repubblicane per la candidatura, i delegati sono assegnati su base maggioritaria (“il primo prende tutto”), mentre i delegati alla convenzione democratica sono perlopiù assegnati su base proporzionale, a seconda del numero di collegi elettorali vinti in ogni Stato. Le primarie, le convenzioni e i caucus tenutisi per primi, in Iowa, New Hampshire, Wyoming, Michigan, Nevada, South Carolina, Hawaii, Florida e Maine, hanno già dato alcune indicazioni su quali saranno i prescelti. Il repubblicano Rudy Giuliani di New York, che inizialmente era considerato un potenziale vincitore, si è tirato fuori dopo i cattivi risultati in Iowa, New Hampshire e poi Florida. Anche il repubblicano Fred Thompson, attore di Hollywood ed icona conservatrice, è stato costretto ad un prematuro ritiro dalla gara. Neppure il democratico John Edwards del South Carolina, i cui discorsi populisti ne avevano fatto inizialmente il preferito tra molti elettori iscritti al sindacato, è riuscito a costruire un granché sulla sua immagine da “figlio di operaio” che si era costruito, ed è stato obbligato a ritirarsi dalla contesa. Mentre ci si avvicinava al confronto di martedì, nel quale erano in gioco stati ricchi di delegati come la California e lo stato di New York, il senatore repubblicano John McCain dell’Arizona è salito nei sondaggi ai danni dei rivali Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, e Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas. Nel campo democratico, il senatore Barack Obama dell’Illinois ha recuperato in modo spettacolare il distacco che le aveva dato la senatrice Hillary Clinton di New York, che era stata a lungo in testa ed era la candidata che ci si aspettava vincesse. In molti sondaggi di opinione, Obama l’ha anche superata. Con così tanti delegati in gioco, i candidati di entrambi i partiti speravano di stabilire una chiara supremazia. Sia Huckabee sia Romney hanno vinto in una manciata di Stati, ma John McCain è stato palesemente il vincitore per il “Grand old party” (Gop – Vecchio gran partito, il soprannome del partito repubblicano) , tagliando fuori i suoi rivali per stabilire un comodo vantaggio verso le restanti primarie e i restanti caucus. In aggiunta ai 170 delegati della California e ai 101 dello Stato di New York, McCain ha vinto anche il Connecticut, l’Illinois, il Missour, il New Jersey, l’Oklahoma, il Delaware e il suo Stato di origine, l’Arizona. Servono 1191 delegati per la nomina repubblicana; finora, McCain ha 514 delegati rispetto ai 117 di Romney e ai 122 di Huckabee. Dal lato democratico, il pareggio statistico tra Clinton e Obama è continuato, con Obama che ha vinto in più Stati, ma Clinton vincitrice in Stati con un maggior numero di delegati. Nessuno dei due candidati ha più della metà dei 2025 delegati necessari per assicurarsi la nomina democratica. Prima delle primarie e dei caucus in Kansas, Nebraska, Louisiana, Stato di Washington, Maine, Virginia, Maryland, Distretto di Columbia, Hawaii e Wisconsin, Obama è già il favorito. Poi, il 4 marzo, il Texas e l’Ohio avranno le loro primarie, dove è atteso un vantaggio per Clinton. Obama però sta anche raccogliendo più soldi di Clinton, che è stata a lungo “la beniamina di Wall Street”; Obama ha raccolto 32 milioni di dollari a gennaio. In risposta, Clinton ha prelevato 5 milioni di dollari dal suo patrimonio personale, per tenere il passo. Dopo sette anni di Bush e delle sue politiche, c’è un diffuso malcontento nei confronti dello status quo, con lo stato dell’economia e la guerra in Iraq in testa alla lista delle preoccupazioni della maggior parte degli elettori. Con Bush che non può correre per la rielezione e senza in pista nessuno dalla sua cerchia immediata di sodali, le elezioni 2008 sono più o meno aperte ad ogni possibilità, almeno sulla carta. Dunque, che possibilità di vincere hanno a novembre i candidati rimasti? “Chiunque tranne Bush” Per i repubblicani, sembra abbastanza probabile in questa fase che McCain sarà nominato, sebbene potrebbero ancora esserci delle sorprese. Rispetto ai neo-con della Casa Bianca, McCain è più calcolatore, facendo parte della “vecchia scuola”, veterano militare ed ex prigioniero di guerra, visto da alcuni nel suo partito come troppo liberal. Soprattutto, è un leale difensore del capitalismo e dell’imperialismo statunitensi. Di conseguenza dispone di una capacità di attrazione per la classe capitalista, nella misura in cui ci si appresta ad entrare in un periodo di instabilità interna ed internazionale, ed anche per quegli elettori conservatori che ne hanno avuto abbastanza di tipi come Bush e Cheney. Eppure, i repubblicani sono tutt’altro che uniti attorno a McCain. La sua più ampia base di sostegno è tra i cosidetti repubblicani “moderati” o “liberali”. L’icona radiofonica dei conservatori Rush Limbaugh, invece, ha di recente proclamato che “McCain ucciderà il conservatorismo come forza dominante nel Partito Repubblicano”. E la commentatrice conservatrice Ann Coulter, in una franca ammissione della scarsa differenza tra i candidati dei partiti maggiori, ha detto: “Se lui è il nostro candidate maschio, allora la nostra donna è Hillary, perché lei è più conservatrice di lui: penso che sarebbe più forte nella guerra contro il terrorismo”. Coulter poi ha detto che sarebbe disposta a fare campagna per Clinton se McCain dovesse vincere la candidatura repubblicana. Mitt Romney è considerato “l’ultimo vero conservatore” in corsa, mentre i cristiani evangelici hanno finora guardato a Mike Huckabee. Nonostante si sia alienato le simpatie di alcuni strati della base religiosa e socialmente conservatrice del suo partito, per i suoi punti di vista presuntamente “liberal” sulla tortura e l’immigrazione, il suo personaggio “fuori dagli schemi” ha appeal per gli elettori indipendenti conservatori. Inoltre, in seguito al suo ampio risultato nel Super Martedì, è probabile che molti repubblicani punteranno su McCain come il candidato migliore in quella che sarà probabilmente un’elezione difficile per il partito attualmente al potere. In un confronto ipotetico tra McCain e Clinton o Obama, McCain è dato per favorito dai sondaggi. Per quanto riguarda i democratici, sia Clinton sia Obama escono bene dai sondaggi contro qualunque degli altri contendenti repubblicani. Clinton è vista come una candidata ben inserita dentro al sistema, una democratica legata al mondo degli affari che conosce i trucchi del mestiere della politica interna ed internazionale. Ha un leggero vantaggio nel voto femminile e bianco, come anche nel voto dei latinoamericani. Obama è visto come una relativa novità; giovane, fresco e carismatico, ha conquistato una schiacciante maggioranza nel voto dei neri. Se l’è cavata anche particolarmente bene con gli studenti universitari e in generale nel Sud. Con la candidatura ancora contesa, la maggioranza dei commentatori danno ad Obama una probabilità sempre maggiore di scalzare Clinton mano a mano che questa fase preliminare della sfida presidenziale continua. Non è escluso che possano arrivare alla convention di Denver (Colorado) a fine agosto senza che nessuno dei due candidati abbia dalla sua una maggioranza di delegati. In ultima analisi, a decidere saranno i vertici di partito e le grandi multinazionli di cui sono a libro paga. Cambiamento in cui credere? Dopo quasi 8 anni di governo repubblicano, è naturale che “l’altro partito” parta in vantaggio, specialmente vista l’eredità che Bush sta lasciandosi dietro. C’è stata perciò un’ascesa del consenso fra gli elettori democratici, specialmente tra i giovani e le minoranze, verso quei candidati che invocano una soluzione alla situazione sempre più dura che stanno affrontando milioni di americani. Gli elettori di entrambi i partiti segnalano l’economia come il tema più importante. I democratici hanno messo la guerra in Iraq al secondo posto e la sanità al terzo. Gli elettori repubblicani hanno detto che l’immigrazione veniva seconda in ordine di importanza, seguita dalla guerra in Iraq. La crisi economica che si sta sviluppando sta portando ad una crescente polarizzazione della società USA, sia verso sinistra sia verso destra, e, non avendo una vera alternativa, i lavoratori stanno cercando soluzioni ai loro problemi entro i confini conosciuti del sistema bipartitico. Non è sorprendente che si faccia un gran parlare del bisogno di “cambiamento” e di “speranza” e in effetti le cifre record della partecipazione alle primarie e ai caucus del Super Martedì, in particolare per i democratici, sono un’indicazione del fatto che l’elettorato è stufo delle politiche dell’attuale amministrazione ed aspira ad un cambiamento, che vuole credere che non sia vero che la situazione attuale “è il meglio che si possa ottenere”. McCain, il “politico poco ortodosso” che rompe gli schemi, promette di “disturbare il manovratore” a Washington. Anche il fatto che Clinton, una donna, e Obama, un nero, siano non solo i candidati prescelti dai democratici, ma abbiano anche ottime possibilità di vincere le elezioni, è un’indicazione della sete di cambiamento: non c’è mai stato un candidato donna o nero alle presidenziali. Eppure cosa significa tutto questo per la gente comune, per i lavoratori? Che tipo di “cambiamento” porteranno effettivamente questi candidati? C’è una di queste candidature che veramente rappresenti gli interessi della maggioranza della popolazione? Sebbene tutti e tre i candidati in testa si presentino come rappresentanti del “cambiamento”, c’è stato molto clamore soprattutto attorno ad Obama: si è attentamente e cinicamente presentato come tutto e il contrario di tutto a seconda di chi aveva davanti, usando una retorica fiera per approfittare del forte desiderio di cambiamento dei lavoratori americani, mostrando al tempo stesso una faccia ferma, responsabile e “moderata” all’America imprenditoriale. Lo slogan della sua campagna è “Change We Can Believe In”, “Cambiamento in cui credere”, e in Illinois nel suo discorso della vittoria del Super Martedì ha detto: “È giunto il nostro momento, il nostro movimento è vero, e sta arrivando il cambiamento in America”; ma che tipo di cambiamento propone? Sebbene in questi giorni sottolinei di essere stato contrario alla guerra in Iraq fin dal primissimo inizio, Obama nel 2004 aveva detto al New York Times che c’era poca differenza fra Bush e lui rispetto alla guerra in Iraq e che non sapeva come avrebbe votato sulla mozione parlamentare che autorizzava Bush ad andare in guerra (non era membro del Senato quando si è votato). Nonostante i suoi sforzi di ingigantire presunte differenze, in realtà ha votato quasi sempre allo stesso modo della Clinton. Il suo punto di vista riguardo al sistema capitalista è piuttosto chiaro: “Ci vuole un viaggio oltreoceano per apprezzare appieno quanto stiamo bene noi americani; anche i nostri poveri danno per scontati beni e servizi come l’elettricità, l’acqua pulita, il sistema fognario, i telefoni, le televisioni e gli altri elettrodomestici – cose ancora irraggiungibili per gran parte del mondo. L’America ha ricevuto la benedizione di alcune delle migliori terre del pianeta, ma chiaramente non sono solo le nostre risorse naturali a spiegare il nostro successo economico. Il nostro patrimonio più grande è stato il nostro sistema di organizzazione sociale, un sistema che per generazioni ha incoraggiato l’innovazione costante, l’iniziativa individuale e l’allocazione efficiente delle risorse [...] il nostro sistema di libero mercato.” (Estratto dal suo libro The Audacity of Hope, “L’audacia della speranza”) Quando parla degli effetti negativi dei tagli fiscali per i ricchi, non vi si oppone ma dice soltanto che questi tagli dovrebbero andare alle imprese che non tagliano posti di lavoro per aprire stabilimenti all’estero. Per quanto poi nei suoi comizi infiammi la retorica a favore dei lavoratori abbondi, in The Audacity of Hope assume la seguente posizione: “Ci sono semi di anarchia nell’idea di libertà individuale e un pericolo tossico nell’idea di uguaglianza. Perché, se tutti sono veramente liberi, senza i vincoli della nascita o del rango e senza un ordine sociale ereditato, come possiamo mai sperare di formare una società coesa?” E per quanto riguarda le avventure all’estero dell’imperialismo USA, alla rivista Foreign Affairs ha dichiarato di recente quanto segue: “Il momento dell’America non è passato, ma deve essere riaffermato [...] Un esercito forte è necessario, più di qualunque altra cosa, per sostenere la pace [...] Dobbiamo essere più preparati a sporcarci gli stivali allo scopo di dare la caccia ai nemici su scala globale [...] Non esiterò ad usare la forza unilateralmente, se necessario, per proteggere il popolo americano e i nostri interessi vitali [...] Dobbiamo anche considerare l’uso della forza militare al di là dell’autodifesa, per fornire quella sicurezza comune che sorregge la stabilità globale - per sostenere i nostri amici, partecipare ad operazioni di stabilità e ricostruzione, o per opporci ad atrocità di massa.” Mentre McCain ha messo in gioco la sua reputazione sulla continuazione a pieno ritmo delle guerre in Iraq ed Afghanistan, Clinton ed Obama hanno fatto leva sull’opposizione schiacciante dell’elettorato alla guerra in Iraq; nessuno dei due, tuttavia, è per l’interruzione del finanziamento a queste guerre e per il ritiro immediato di tutte le truppe. Ciò che è più importante dal punto di vista dei lavoratori statunitensi è che nessuno dei candidati ha alcuna proposta concreta per fornire un vero sistema sanitario e scolastico universale, per creare posti di lavoro e ricostruire le infrastrutture del Paese, per affrontare davvero la crisi abitativa e fornire case sicure ed a basso prezzo per tutti, per garantire la legalizzazione immediata ed incondizionale degli immigrati clandestini e delle loro famiglie, per interrompere gli sconti fiscali ai ricchi e invece tassarli pesantemente per finanziare la spesa sociale ecc. In altre parole, non ci sono differenze fondamentali tra Clinton, Obama e McCain. Tutti loro si sono genuflessi per provare alla classe dominante che sono i più adatti a guidare il sistema nei tempi duri che verranno, che possono essere presi sul serio per questa responsabilità, che possono contenere il montante malcontento entro limiti che non minaccino il sistema. “Segui il denaro” Secondo OpenSecrets.org, il sito web del Center for Responsive Politics (CRP), le elezioni 2008 si avviano ad essere le elezioni più costose che ci siano mai state. Nel 2004, durante l’ultima elezione presidenziale, è stata raccolta una cifra record di 880,5 milioni di dollari. Il CRP stima che in questa tornata sarà raccolto complessivamente più di un miliardo di dollari. Quale lavoratore può mai anche solo avvicinarsi al possedere una cifra simile? Anche avendo patrimoni personali di milioni di dollari investiti nella propria campagna, l’unico modo per raccogliere i fondi per una campagna presidenziale al giorno d’oggi è rivolgersi alla gente che conta di Wall Street. Non è un caso che le banche di investimento Lehman Brothers e Merrill Lynch, nonché i giganti tecnologici Microsoft e Google, siano tra i maggiori sovvenzionatori dei candidati di punta di entrambi i partiti. Lehman Brothers e Microsoft sono stati i massimi donatori complessivi nel quarto semestre del 2007, mentre Goldman Sachs e Citigroup sono i più grandi donatori dell’anno tra le imprese private. Secondo il CRP, avvocati e studi legali hanno contribuito più di qualsiasi altro settore economico nel quarto trimestre del 2007. Ecco le cifre compilate dal CRP rispetto a dove i grandi investitori stanno mettendo i propri soldi: Hillary Clinton Principali sovvenzionatori finora: DLA Piper (470.150$); Goldman Sachs (407.561$); Morgan Stanley (362.700$); Citigroup (350.895$); Lehman Brothers (237.270$). Barack Obama Principali sovvenzionatori finora: Goldman Sachs (421.763$); UBS (296.670$); Lehman Brothers (250.630$); National Amusements (245.843$); JP Morgan Chase (240.788$). Mitt Romney Principali sovvenzionatori finora: Goldman Sachs (223.925$); Merrill Lynch (163.020$); Citigroup (162.950$); Morgan Stanley (152.050$); Lehman Brothers (137.450$). John McCain Principali sovvenzionatori finora: Merrill Lynch (155.950$); Citigroup (153.362$); Blank Rome (143.501$); Greenberg Traurig (130.587$); Goldman Sachs (85.252$). Notate qualcosa? Come tutti gli investitori accorti, il grande capitale si mette al riparo da possibili sorprese e finanzia un po’ tutti. Ma come ogni americano sa, nessuno può mangiare a sbafo: nessuno versa tanti soldi senza volere una contropartita. Le primarie ed i caucus sono fatte per far sì che l’americano medio creda che il proprio voto e la propria opinione contino. Ma alla fine sono i vertici del partito che decidono a seconda di cosa vogliono i generosi finanziatori. Instabilità politica, economica e geopolitica Il prossimo presidente degli Usa non potrà scegliere autonomamente le priorità della sua azione politica. Queste priorità saranno dettate dalla crisi del sistema capitalista, sia in Usa che a livello internazionale. Ricordiamoci che Bush vinse il suo primo mandato sulla base dello slogan “Prima di tutto l’America” ma è stato in seguito costretto dagli avvenimenti a portare avanti la politica imperialista più aggressiva di tutta la storia americana. Il prossimo inquilino della Casa bianca erediterà una situazione mondiale sempre più instabile ed una recessione economica la cui durata e profondità sono ancora sconosciute. L’economia Usa ha rallentato in maniera molto seria nell’ultimo trimestre del 2007, crescendo solo dello 0,6%. La crescita totale del Pil nel 2007 è stata del 2,2%, il peggior risultato dal 2002. Il settore edilizio è crollato sempre nel 2007 del 16,9%, una cosa che non succedeva da 25 anni. L’indice di occupazione è sceso dal 51,8% al 43,9, la contrazione mensile più importante del mercato del lavoro degli ultimi quattro anni. Tutto ciò ha portato ad una riduzione delle entrate fiscali, eppure Bush ha proposto per il 2008 un bilancio che per la prima volta nella storia Usa supera i 3mila miliardi di dollari. Secondo le stesse stime governative ciò porterà ad un deficit di 410 miliardi di dollari nel 2008 e di 407 miliardi nel 2009, portando il deficit federale a 5.900 miliardi di dollari, un aumento di 3.300 miliardi da quando Bush è al potere. 2.300 di questi miliardi di debito sono detenuti dalle banche e dagli investitori stranieri. La legge finanziaria proposta da Bush aumenta in maniera sostanziale le spese militari sia per l’esercito Usa che per gli alleati in giro per il mondo, mentre taglia le spese ridotte già all’osso per lo stato sociale. Una vera e propria finanziaria dei “cannoni al posto del burro”, una chiara dichiarazione di militarismo crescente all’estero e di un attacco sempre più deciso ai lavoratori in patria. La classe dominante si aspetta ancora maggiori attacchi dal prossimo presidente, sia egli democratico o repubblicano. Durante il periodo di crescita economica degli ultimi anni, i profitti sono cresciuti a livelli record, mentre gli aumenti salariali sono stati minimi. La disoccupazione a lungo termine è a livelli mai raggiunti e milioni di persone non sono più considerate parte della forza lavoro. Un milione di famiglie hanno perso o perderanno a breve la propria casa, e si prevede che si perderanno milioni di posti di lavoro nella prossima recessione. Se durante la crescita economica i lavoratori hanno avutole briciole, le cose saranno ancora peggiori durante la recessione. Il sogno americano si sta trasformando in un incubo e questo avrà conseguenze profonde sulla coscienza di milioni di lavoratori americani che cominceranno a mettere in discussione questo sistema che porta ad una simile instabilità. Il prossimo presidente farà inevitabilmente appello all’unità nazionale in un’epoca di polarizzazione e disuguaglianze crescenti. In altre parole chiederà ai lavoratori americani di subordinare i propri interessi a quelli dei ricchi, di stringere la cinghia ancora di più. Per un partito dei lavoratori di massa Dopo il Supermartedì, Mc Cain pare sicuro di attenere la nomination repubblicana. Nell’altro campo, sia Obama che la Clinton possono essere fiduciosi, vista la grande disillusione nei confronti del partito attualmente al potere e la mancanza di alternative. Ma anche la politica portata avanti dai democratici nel Congresso, dove hanno la maggioranza, ha lasciato molta gente delusa e la vittoria democratica a novembre non è affatto certa. Molto può ancora succedere in questi mesi e la situazione economica giocherà un ruolo importante, come le vicende internazionali. Tuttavia sembra probabile che saranno i democratici ad ereditare il casino lasciato da Bush. L’affluenza alle primarie democratiche riflette, pur all’interno dei limiti del sistema politico americano attuale, uno spostamento a sinistra ed un rifiuto dello status quo. Ma dobbiamo essere chiari: non c’è una soluzione ai problemi dei lavoratori all’interno di questi stessi limiti. Oggi non sembra esserci spazio per candidati che si pongano al di fuori del duopolio esistente ma, come abbiamo spiegato molte volte, i politici borghesi ed i capitalisti possono essere combattuti e sconfitti. Un partito di massa dei lavoratori basato sui sindacati con tutta la forza organizzativa ed economia che questi ultimi hanno a disposizione, che lotti per un programma che difenda veramente gli interessi dei lavoratori, potrebbe spezzare rapidamente la morsa esercitata dai repubblicani e dai democratici. Ci sono molte illusioni nei democratici e nell’idea che una donna o un afroamericano possano riflettere meglio gli interessi dei lavoratori. Ma la cosa più importante da capire è quali interessi rappresentano la Clinton o Obama e non c’è alcun dubbio che essi stiano dalla parte del grande capitale e dello sfruttamento capitalista. La gran maggioranza degli americani lo impareranno attraverso il metodo più duro, quello dell’esperienza diretta. Se i democratici controlleranno le due camere e la Casa bianca, non ci saranno più scuse per non ritirarsi dall’Iraq, per non migliorare lo stato sociale, l’edilizia e l’istruzione pubblica, per non cancellare le leggi antisindacali e ricostruire le infrastrutture del paese. Dopo alcuni anni di “scuola” del partito democratico, si svilupperanno i dubbi e la ricerca di un’alternativa che veramente rappresenti i lavoratori. Non sappiamo ancora chi sarà il prossimo presidente degli Stati uniti, ma sappiamo già che il vincitore non rappresenterà una rottura decisiva con le politiche filopadronali di Bush e non difenderà gli interessi della classe operaia. Per tali motivi, i lavoratori avranno bisogno di un proprio partito, un partito di massa dei lavoratori. 7 febbraio 2008 Source: FalceMartello