La classe operaia è scomparsa? Realtà e finzione

Quando mi alzo la mattina, mi metto le scarpe e le allaccio, spesso mi chiedo: “chi ha fatto queste scarpe?”. Allo stesso modo, quando mi siedo a tavola per la colazione, mi domando: “chi ha costruito la tavola e chi ha lavorato nella fattoria che produce l’avena che ho usato per il porridge?” Quando vado a fare la visita annuale nello studio del mio medico, mi chiedo: “a quale classe appartiene l’infermiera?” Forse vi starete chiedendo perché mi pongo queste domande. Ebbene, è perché siamo bombardati dall’idea, in netto contrasto con la mia esperienza, che la classe operaia non esiste più, che è sparita e ora siamo praticamente tutti “classe media”.

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In particolare, subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90, è diventato di moda promuovere l’idea che la lotta di classe sia una cosa del passato e addirittura che la classe operaia non esista più. Molti scrittori hanno continuato a sfornare articoli, libri e ricerche, dove sostengono che il peso della classe operaia nella società si sia notevolmente ridotto, diventando una forza irrilevante, o che addirittura abbia proprio cessato di esistere.

Dal mondo accademico è partita della propaganda a raffica. Un esempio di questo è un testo pubblicato nel 1996 dagli scrittori postmodernisti Jan Pakulski e Malcolm Waters, The Death of Class [La morte della classe – NdT], in cui sostengono che la classe è un fenomeno puramente storico e che una prospettiva di classe oggi è diventata un ostacolo alla comprensione della società contemporanea. affermano: “…che le classi si stanno dissolvendo e che le società più avanzate non sono più società di classe”.

Non è stato solo il crollo dell’Unione Sovietica ad avere un ruolo su questi cosiddetti “intellettuali”. Gli anni ’70 avevano visto un movimento diffuso della classe operaia mondiale. Il movimento del maggio 1968 in Francia, l’Autunno caldo del 1969 in Italia e l’enorme impennata degli scioperi e dei movimenti rivoluzionari in tutto il mondo capitalista avevano cominciato a diminuire alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 si è verificato ovunque un forte calo degli scioperi.

I principali movimenti di sciopero vennero sconfitti a causa della mancanza di una direzione combattiva. In Gran Bretagna lo sciopero dei minatori del 1984-85 fu un punto di svolta fondamentale: una battaglia epica condotta dai minatori – con connotazioni a volte insurrezionali – finì con la sconfitta. Battaglie simili furono perse in Italia (alla FIAT nel 1980), negli Stati Uniti (le misure antisciopero di Reagan nel 1981 contro i controllori di volo organizzati nel PATCO [ Professional Air Traffic Controllers Organization]) e in molti altri paesi.

Ciò portò a una tregua nella lotta di classe, in molti paesi alla diminuzione delle iscrizioni ai sindacati e a una perdita di fiducia verso i partiti riformisti e stalinisti che erano stati responsabili delle sconfitte della classe operaia. Ciò a sua volta ebbe un effetto su molti accademici che in precedenza si erano orientati a sinistra. Pakulski e Waters riflettono questa cosa quando scrivono:

“Con il calo dell’impegno per il marxismo, il crollo del comunismo sovietico e il declino del fascino per le ideologie socialiste in Occidente, la classe sta perdendo il suo significato ideologico e la sua centralità politica. Sia la destra che la sinistra stanno abbandonando la loro fissazione per le questioni di classe. La destra sta rivolgendo la sua attenzione alla moralità e alle etnie, mentre la sinistra critica è sempre più preoccupata per le questioni di genere, l’ecologia, la cittadinanza e diritti umani. […] Le divisioni di classe stanno perdendo il loro carattere evidente e pervasivo. […] Il radicalismo di classe non è più la moda del momento nei salotti intellettuali e nei campus universitari. Proprio come le perline [buddiste] e i berretti di Che Guevara, la classe è superata, soprattutto tra i sostenitori dell’avanguardia postmodernista e chi pratica la nuova politica centrata sul genere, l’ecologia e l’etnia”.

Anche i partiti di massa tradizionali della classe operaia, come il Partito Laburista in Gran Bretagna, furono colpiti da tutto questo. In tantissimi abbandonarono queste organizzazioni, mentre allo stesso tempo la destra consolidò la sua presa. L’ascesa del blairismo è stata una conseguenza di tutto ciò. E in linea con il pensiero di personaggi come Pakulski e Waters, John Prescott, ex vice primo ministro sotto Blair, dichiarò prima delle elezioni generali del 1997 che “ormai apparteniamo tutti alla classe media”. Allo stesso tempo, Tony Blair, nel suo discorso alla Conferenza del Partito Laburista del 1999, dichiarò che “la guerra di classe è finita”.

Tuttavia, non tutti gli accademici sostengono che la classe abbia perso il suo significato. Ad esempio, Geoffrey Evans e James Tilley hanno sostenuto che le notizie sulla “morte della classe” in Gran Bretagna sono premature. Della tendenza a cancellare la classe operaia, hanno scritto:

“L’ascesa della classe media è stata spesso vista come un’indicazione della fine sia della divisione in classi che dell’importanza politica della classe. La riduzione delle divisioni tra le classi sociali è vista come una conseguenza naturale della deindustrializzazione, dell’aumento del benessere, dell’estensione dello stato sociale e del crollo delle tradizionali comunità di classe. All’estremo si sostiene che “il dinamismo del mercato del lavoro sostenuto dallo stato sociale ha dissolto le classi sociali” (Beck e Beck-Gernsheim 2002, p.203). Ci ritroviamo così con una struttura sociale amorfa, priva di differenze di classe: una società in cui tutti appartengono alla classe media o non hanno alcuna appartenenza di classe”. (Geoffrey Evans e James Tilley, La nuova politica di classe: l’esclusione politica della classe operaia britannica, OUP Oxford, 2017)

Tuttavia, anche Evans e Tilley, nel difendere l’idea che la classe operaia esista ancora, sottolineano la riduzione delle sue dimensioni e la crescita della cosiddetta classe media. Ma possono farlo solo inserendo nella classe media quelle categorie che sono chiaramente coinvolte con il lavoro salariato e che quindi, da un punto di vista marxista, appartengono alla classe operaia.

Cosa significa essere della classe operaia?

Gran parte della confusione deriva da come si definisce “classe operaia”. Nel mondo accademico, molti guardano ai livelli di istruzione o di reddito per determinare l’appartenenza ad una classe. Ma questo ignora la vera essenza di ciò che significa essere classe operaia. La questione non è che tipo di musica ascolti, quale tipo di romanzo leggi, o se hai uno stipendio alto o basso. Essere della classe operaia, o proletari, significa che per guadagnarsi da vivere si deve vendere la propria capacità di lavorare a qualcun altro.

Marx ed Engels si riferivano alla “classe dei moderni lavoratori salariati, che non avendo mezzi di produzione propri, sono costretti a vendere la propria forza lavoro per vivere” (Manifesto del Partito Comunista). I lavoratori che lavorano nelle catene di montaggio delle fabbriche automobilistiche, nelle miniere di carbone, o seduti alla scrivania per lavorare al computer come contabili o progettisti: tutti costoro vendono la propria forza lavoro.

Ciò che determina la posizione di classe è se si possiede o meno i mezzi di produzione. I proprietari sono quella piccola minoranza di capitalisti che pagano il salario a quei milioni di lavoratori che vengono messi a lavorare sui mezzi di produzione per produrre un profitto per i capitalisti. Se usiamo questi criteri, allora quando guardiamo le statistiche reali a livello globale – i fatti sono ostinati – vediamo che la classe operaia non solo esiste, ma non è mai stata così grande, sia in termini di numeri assoluti che in termini di peso relativo nella società.

Paesi capitalisti avanzati

Quando i teorici postmodernisti di oggi si riferiscono a una riduzione delle dimensioni della classe operaia, si riferiscono principalmente alla classe operaia industriale, cioè agli operai nelle fabbriche dei paesi capitalisti avanzati, e dalle statistiche deducono che la classe operaia non costituisce più la forza che era una volta.

A questo riguardo dobbiamo far notare a queste persone che la classe operaia non è composta esclusivamente dai lavoratori negli stabilimenti produttivi. Il plusvalore viene prodotto non solo nella fabbrica, ma nell’intero processo produttivo. Pertanto, anche un programmatore di computer contribuisce alla realizzazione di prodotti destinati al consumo. Un lavoratore dei trasporti è essenziale per l’intero processo, sia che trasporti da una miniera le materie prime utilizzate in un impianto di produzione, sia che trasporti giornalmente milioni di lavoratori verso il loro posto di lavoro.

Un addetto alle pulizie di un’azienda in appalto che segue le pulizie di una fabbrica verrebbe oggi classificato come addetto ai servizi, nonostante contribuisca effettivamente al processo di produzione industriale. Si è verificata anche una delocalizzazione di molti dei lavori che in precedenza erano considerati parte del settore manifatturiero e ora sono classificati come servizi, distorcendo le statistiche. Ad esempio, come sottolinea The Manufacturer, in Gran Bretagna:

“Sebbene il contributo del settore manifatturiero al PIL sia sulla carta diminuito, molti dei servizi forniti ai produttori che un tempo sarebbero stati considerati parte del settore manifatturiero – come la ristorazione, le pulizie, i servizi per l’edilizia, la sicurezza, la logistica e così via – sono ora allocati in diverse aree dell’economia.

“Tuttavia, tali servizi dipendono direttamente dal settore manifatturiero per avere un’attività continua e potrebbero effettivamente essere considerati come una parte del PIL del settore manifatturiero. Pertanto, sono in molti a chiedere che venga riconosciuto il loro vero valore nella produzione, una mossa che vedrebbe la cifra che viene spesso citata del VAL [valore aggiunto lordo] più che raddoppiare passando dal 10% fino al 23% e avrebbe un grande impatto sulle statistiche complessive della produzione nel Regno Unito”.

Ci sono altri settori della classe operaia che non partecipano direttamente al processo di produzione industriale, ma svolgono comunque un ruolo chiave. Oggi la stragrande maggioranza dei lavori richiede un certo livello di istruzione, ad esempio la capacità di leggere le istruzioni o di partecipare a corsi di formazione. Ciò richiede insegnanti che istruiscano la prossima generazione di lavoratori. Quando poi questi si infortunano o si ammalano, hanno bisogno di essere “riparati” e di essere reinseriti nel processo produttivo. Quell’infermiera a cui ho fatto riferimento in precedenza si assicura che io sia in condizioni idonee per continuare a lavorare.

Quindi anche questi settori fanno parte della classe operaia nel suo complesso. Che lavorino in un ospedale, in una scuola o in università, anche loro lavorano per un salario e non possiedono mezzi di produzione.

I marxisti non contestano il fatto che in molte nazioni capitaliste avanzate c’è stata una riduzione del numero di lavoratori dell’industria. In Gran Bretagna, ad esempio, il settore manifatturiero impiega oggi 2,7 milioni di persone, rispetto agli 8 milioni degli anni ’70. A partire dagli anni ’80, se prendiamo l’insieme dei paesi capitalisti avanzati, questa cifra è scesa da circa 195 milioni a 155 milioni (una riduzione di 40 milioni), ed è su questo che si concentra la maggior parte degli accademici quando vogliono descrivere un quadro di un classe operaia in declino. In questo, sono molto disonesti su ambedue i fronti – come abbiamo spiegato sopra.

Tuttavia, a livello globale, non solo la classe operaia industriale non si è ridotta in termini di dimensioni, ma è anzi cresciuta enormemente negli ultimi 40 anni, come mostreremo più avanti.

Il ruolo della produttività del lavoro

Un elemento importante da comprendere è che la produttività del lavoro nell’industria è aumentata massicciamente a partire dalla rivoluzione industriale. Oggi un numero molto minore di lavoratori dell’industria produce molto di più rispetto all’enorme numero di lavoratori del passato.

Ad esempio, dalla metà del XVIII secolo fino agli anni Ottanta del secolo scorso, la produttività di un singolo operaio tessile è aumentata di 2.000 volte, il che significa che oggi un lavoratore può produrre una quantità di tessuto che due secoli prima avrebbe richiesto 2.000 lavoratori. Nel periodo più recente, vediamo come nel decennio 1979-89 la produttività nel settore manifatturiero è cresciuta del 4,7% annuo, producendo un incremento complessivo del 50%. Ciò significa che in molti settori vengono prodotti gli stessi beni, o anche di più, nonostante il numero di lavoratori impiegati sia inferiore.

E dopo tutto, come sarebbe potuta scomparire la forza lavoro industriale? Il suo ruolo rimane oggi più che mai essenziale: produrre le cose di cui abbiamo bisogno.

Invece che indicare un indebolimento della classe operaia, il fatto che meno lavoratori producano di più in meno tempo ha aumentato enormemente il loro potere. Ad esempio, in Gran Bretagna nel settore energetico sono impiegati circa 175.000 dipendenti, ovvero meno lavoratori rispetto al passato, con un forte calo negli ultimi 30 anni. Ma questo numero ridotto di lavoratori ha oggettivamente un potere immenso, poiché se scioperassero potrebbero paralizzare l’intera economia. Immaginate se i lavoratori dell’elettricità, del gas, del petrolio, insieme ai lavoratori dell’acqua decidessero di scioperare in modo coordinato. L’intera economia si fermerebbe.

Mettendo insieme tutti questi fatti, non sorprende che la maggioranza della popolazione del Regno Unito continui a considerarsi classe operaia. Uno studio pubblicato sul sito British Social Attitudes mostra che nel periodo 1983-2012 la percentuale della popolazione che si sente della classe operaia è rimasta costantemente intorno alla soglia del 60%.

Ignorando questi fatti evidenti, i suddetti autori postmodernisti, Pakulski e Waters, affermano che “… i membri di una classe devono essere consapevoli dei loro punti in comune e utilizzare alcuni termini riconosciuti per l’autodescrizione collettiva. Un senso di differenza tra “loro” e “noi” è una condizione necessaria per la formazione di attori di classe che caratterizza gli esempi più sviluppati di articolazione di classe”.

Ciò sembrerebbe implicare che se le persone non vedono il “noi e il loro”, se milioni di lavoratori non si percepiscono come appartenenti a una classe distinta, allora la classe non esiste. Ma è evidente che il modo in cui ci si percepisce non è necessariamente ciò che si è in termini della classe alla quale si appartiene. Un lavoratore molto ben pagato, che riceve un salario elevato, può considerarsi un appartenente alla “classe media”, ma ciò non cambia il fatto che si tratti di lavoratori salariati. E quando la crisi del capitalismo gli presenta senza preavviso la prospettiva che sia in gioco il loro posto di lavoro, questi possono improvvisamente risvegliarsi nella loro reale posizione di classe.

La classe operaia a livello globale è aumentata enormemente

Per avere un quadro completo è necessario mantenere una visione globale del processo. Il sistema capitalista è un sistema globale e i capitalisti spostano i loro investimenti in tutto il mondo, cercando di massimizzare i loro profitti. Pertanto, la chiusura degli impianti industriali in un paese come la Gran Bretagna non significa necessariamente un indebolimento della classe operaia su scala globale.

La riduzione del numero degli operai industriali nei paesi capitalisti avanzati non implica affatto una contrazione della classe operaia nel suo insieme. Al contrario, questi ruoli saranno stati sostituiti da altre forme di lavoro salariato in altri settori nei paesi capitalisti avanzati e nuovi lavoratori saranno introdotti nella produzione man mano che verranno aperti impianti di produzione nei paesi in cui i salari sono più bassi.

Se distogliamo lo sguardo dai paesi capitalisti avanzati e guardiamo al quadro più ampio su scala mondiale, vediamo una situazione molto diversa da quella descritta dai nostri accademici postmodernisti. Nello stesso periodo, nell’ex “mondo meno sviluppato”, il numero dei lavoratori dell’industria è aumentato da circa 190 milioni a 500 milioni. Si tratta di un aumento di oltre 300 milioni (vedi grafico). Vediamo quindi che mentre c’è stato un certo grado di deindustrializzazione nei paesi capitalisti avanzati, un enorme grado di industrializzazione ha avuto luogo su scala globale.

I dati che abbiamo per la Cina, ad esempio, mostrano che la forza lavoro industriale è di oltre 100 milioni. Dopo un periodo in cui alla fine degli anni Novanta il numero degli occupati nell’industria era diminuito a causa della chiusura delle fabbriche nella cosiddetta “cintura della ruggine”, cioè la chiusura di alcune delle vecchie industrie statali, a partire dal 2000 i numeri hanno ripreso a crescere, raggiungendo circa i 110 milioni alla fine del 2005. Ora il settore manifatturiero cinese contribuisce alla produzione globale più degli Stati Uniti (vedi la Scheda della produzione globale: gli Stati Uniti a confronto con altre 18 nazioni).

In India si calcola che il numero degli addetti nell’industria manifatturiera sia di circa 55 milioni (Vedi Crescita dell’occupazione nel settore manifatturiero sindacalizzato indiano nel periodo post-crisi finanziaria globale). In effetti, il settore manifatturiero indiano in termini assoluti è uguale a quello di Francia e Italia e maggiore di quello britannico.

Solo per citare qualche altro esempio: in Brasile il numero dei lavoratori nel settore manifatturiero supera gli 8 milioni, in Vietnam sono circa 12 milioni mentre in Messico sono circa 10 milioni.

Tutto ciò significa che la classe operaia industriale a livello globale non è mai stata così forte come oggi. Infatti, gli ultimi dati mostrano che il numero di lavoratori occupati nell’industria a livello globale ha ormai superato i 700 milioni: una forza davvero potente. In fin dei conti, la qualità della vita di una persona è determinata dall’accesso al cibo, all’alloggio, al vestiario, ai trasporti, ecc. Tutto questo viene prodotto da questi milioni di lavoratori e le furbate postmoderniste non possono far sparire questa classe.

Come abbiamo dimostrato in precedenza, la classe operaia non è costituita semplicemente da lavoratori industriali, ma ci sono molti altri settori che compongono la classe operaia, come l’edilizia, i trasporti e altri.

Se guardiamo alla forza lavoro complessiva per settore a livello globale e non solo quelli che lavorano nell’industria, abbiamo le seguenti cifre: il numero dei lavoratori nei servizi è di 1,65 miliardi, nell’agricoltura è di 873 milioni e nell’industria è di 758 milioni. Nel 1991 la forza lavoro globale ammontava a 2,35 miliardi. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, quest’anno dovrebbe raggiungere all’incirca i 3,6 miliardi.

Se consideriamo che il 25% della popolazione mondiale ha meno di 15 anni e che il 10% ne ha più di 65 anni, restano circa 5 miliardi di persone in età lavorativa. Da qualunque parte la si guardi, se si aggiungono i figli dei lavoratori, i loro partner non lavoratori e i loro genitori in pensione, è assolutamente chiaro che non solo la classe operaia esiste, ma costituisce la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

Questi sono i becchini del capitalismo, come spiegava Marx. Le sconfitte della lotta di classe degli anni ’70 hanno permesso alla classe capitalista di raggiungere un nuovo equilibrio, una stabilizzazione temporanea del sistema. Ha permesso loro di passare all’offensiva contro la classe operaia ovunque, riprendendo i diritti che avevano concesso nel periodo precedente, in molti casi distruggendo i sindacati, aumentando il carico di lavoro ed estraendo maggiori quantità di plusvalore dalla forza lavoro.

Parte di questo processo ha comportato anche lo spostamento degli investimenti verso aree del mondo dove si poteva trovare manodopera a basso costo. Ciò è servito anche come leva contro i lavoratori organizzati nei paesi capitalisti avanzati ed ha rappresentato un periodo di ritirata per la classe operaia. Ma l’altra faccia della medaglia di questo processo è stato che a livello globale, complessivamente la classe operaia si è massicciamente rafforzata in termini numerici. Quindi, oggettivamente parlando, il rapporto di forza tra le classi non è mai stato così favorevole come oggi per la classe operaia.

Questa è la situazione reale. Le persone che hanno realizzato le scarpe che indosso, la tavola a cui mi siedo e il cibo che mangio, infatti esistono. Tuttavia, il ruolo della propaganda capitalista – diffusa attraverso i mass media, attraverso le scuole e le università, attraverso libri e articoli – è quello di far credere alla massa dei lavoratori di essere deboli e isolati e quindi di non avere il potere di cambiare la società.

In questo compito vengono aiutati dai leader dei sindacati, del partito laburista britannico e da tutti gli altri cosiddetti “leader” della classe operaia a livello internazionale, che svendono costantemente le lotte dei lavoratori e lavorano per minare la fiducia della classe operaia.

Tuttavia, le persone ai vertici della società, la classe dei capitalisti e i suoi strateghi più seri sono pienamente consapevoli di quanto sia realmente grande la classe operaia e temono per il proprio futuro se questa classe diventasse consapevole della propria forza.

La crisi economica mondiale in cui siamo entrati non ha precedenti sia per portata che per profondità. I suoi effetti cominciano a farsi sentire nei movimenti di massa, come gli eventi più recenti in Francia e Gran Bretagna dove ci sono state grandi ondate di scioperi, o i movimenti insurrezionali in Perù e Sri Lanka. Paese dopo paese, abbiamo visto il potenziale per il rovesciamento rivoluzionario del sistema attuale.

La vita insegna e la classe operaia si sta lentamente rendendo conto di quanto sia grave questa crisi. Ciò metterà in moto la forza potente che è diventata la classe operaia a livello globale. Con una direzione rivoluzionaria la classe operaia potrebbe spazzare via il capitalismo come un uomo che schiaccia una mosca. Il compito dei marxisti è costruire questa direzione.

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