L’11 settembre, vent’anni dopo

Oggi, vent’anni fa, gli Stati Uniti hanno assistito all’ attacco più grande e sanguinoso sul loro territorio della storia moderna. Almeno 2.977 uomini e donne sono morti e almeno altri 25.000 sono rimasti feriti dopo che un gruppo di terroristi fece schiantare due aerei passeggeri contro le Torri Gemelle del World Trade Center a New York, lasciando il popolo americano in uno stato di shock e incredulità.


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In tutto il mondo, milioni di persone hanno osservato con orrore le scene devastanti di persone disperate, intrappolate nei piani superiori delle torri, alcune delle quali si sono lanciate nel vuoto verso la morte piuttosto che rischiare di essere bruciate vive, poco prima che le torri crollassero, lasciando migliaia di persone sepolte sotto le macerie.

Ma ciò che seguì alla tragedia fu una vergogna per la memoria di tutte quelle persone innocenti che persero la vita quel giorno. La cenere si era appena depositata e il sangue delle vittime si era appena asciugato, che gli avvoltoi avevano già iniziato a volteggiare. Approfittando dell’atmosfera di dolore nazionale, hanno lanciato un vero e proprio bombardamento di bugie e propaganda di guerra per spingere la popolazione statunitense ad accettare che gli Stati Uniti entrassero in un conflitto bellico, con il pretesto di vendicare l’attacco. Il Patriot Act e altre leggi sono state approvate dal Congresso, riducendo gravemente i diritti civili e ampliando drasticamente i poteri di sorveglianza dello stato. Tutto questo in nome di una presunta “Guerra al Terrore” e della “difesa della democrazia”.

Uno dopo l’altro, per giorni e giorni, personaggi come l’allora presidente George W. Bush, Dick Cheney e un’infinità di altri ufficiali, comandanti militari ed esperti sono apparsi in televisione denunciando l’attacco alla “libertà” da parte del “forze malvagie” dell’Islam. L’ex segretario all’Istruzione William Bennett e una schiera di altri neocon hanno esortato il governo a “dichiarare guerra all’Islam militante”, affermando che “gli Stati Uniti dovrebbero comportarsi come in guerra, perché è guerra”. Bennett e la sua banda hanno chiesto di dichiarare la guerra all’Iraq, all’Iran, alla Siria e alla Libia, nonostante il fatto che nessuno di questi paesi avesse alcun legame con l’attacco o con l’organizzazione reazionaria di Al Qaeda dietro di esso.

Dei diciannove dirottatori che hanno compiuto gli attacchi, quindici erano cittadini dell’Arabia Saudita, ma qualsiasi riferimento dell’Arabia Saudita era vistosamente assente da queste dichiarazioni pubbliche. In effetti, è stato fatto ogni sforzo per proteggere gli interessi sauditi, fino al punto di consentire a otto aerei noleggiati di proposito di allontanare dal Paese e mettere in sicurezza sauditi di alto livello, a partire dal 13 settembre, nonostante lo spazio aereo americano fosse ancora bloccato. Tra coloro che erano su quei sui voli c’era il defunto principe Ahmed Salman, che era legato ad Al Qaeda e che si scoprì in seguito essere stato informato in anticipo di un imminente attacco. Mentre veniva istituita una campagna razzista e frenetica di persecuzioni contro persone di origine mediorientale, queste figure oscure legate a uno dei regimi più reazionari del mondo ricevevano vere e proprie carte “uscite di prigione gratis”, stile Monopoli.

Tutte le prove sull’origine degli attacchi puntavano verso l’Arabia Saudita, che è stata a lungo il principale sponsor mondiale del fondamentalismo islamico. In effetti, era la monarchia saudita, in collaborazione con la CIA, che aveva originariamente sostenuto e finanziato Al Qaeda come parte dell’insurrezione islamista contro i sovietici in Afghanistan negli anni ’80. Ora il mostro di Frankenstein dell’imperialismo era sfuggito al controllo ed era diventato un serio problema per gli Stati Uniti e l’Occidente. Non un solo canale televisivo ha fatto menzione di questo fatto, nonostante abbia battuto quotidianamente la grancassa della “Guerra al terrore”. La classe dominante statunitense stava cercando di riaffermare la propria autorità in tutto il mondo e punire in modo esemplare alcuni dei suoi nemici. Il fatto che avesse favorito tali nemici fin dall’inizio era un piccolo dettaglio.

Arroganza

Alcune menti superficiali di sinistra spesso credono che la classe dominante sia infallibile e che tutte le sue decisioni corrispondano a qualche grande piano elaborato nei minimi dettagli nei salotti del potere. Ma non è affatto così. Errori e fatti casuali hanno un ruolo nella storia. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nei primi anni ’90, gli Stati Uniti sono emersi come l’unica superpotenza sulla scena mondiale. Ora veniva messa in imbarazzo da una piccola banda di fanatici religiosi reazionari. Questo non era qualcosa che avrebbe tollerato.

Ospite di Fox News la sera dell’11 settembre, il colonnello David Hunt ha espresso in breve questo atteggiamento quando ha detto a Bill O’Reilly che era giunto il momento per gli Stati Uniti di “scatenare i cani della guerra”. Con la schiuma alla bocca, i cani ai vertici dell’establishment militare non vedevano l’ora di essere lasciati con le mani libere per riaffermare il loro orgoglio.

Con l’Arabia Saudita, la vera origine dell’attacco, troppo importante per i loro interessi, questi pazzi scatenati hanno invaso l’ Afghanistan, immaginando che fosse un bersaglio facile per una dimostrazione brutale di vendetta da parte dell’imperialismo statunitense. Ma come dice la Bibbia, “Prima della rovina viene l’orgoglio”.

Una volta presa, la decisione si è rivelata fatale. La guerra in Afghanistan è stata un’avventura destinata a fallire. Alla vigilia della caduta di Kabul ad opera delle truppe americane nel novembre 2001, Alan Woods scrisse:

Ancora una volta, vediamo come gli americani non abbiano pensato affatto alle conseguenze delle loro gesta. Immaginavano che una volta cacciati i talebani da Kabul, il problema sarebbe stato risolto. Ma non è affatto così. (…) I talebani hanno perso il potere, ma non il loro potenziale per continuare la guerra. Sono molto abituati a combattere la guerriglia in montagna. Lo hanno fatto in precedenza e possono farlo di nuovo. (…) Si apre la prospettiva di una lunga campagna di guerriglia che può andare avanti per anni. La prima parte della campagna di guerra della coalizione è stata la parte facile. La seconda parte non sarà così facile.

(…) Se lo scopo di questa impresa era combattere il terrorismo, scopriranno di aver ottenuto il contrario. Prima di questi eventi, gli imperialisti potevano permettersi di mantenere una distanza relativamente sicura dalle convulsioni e dalle guerre di questa parte del mondo, ma ora ne sono completamente coinvolti. Con le loro azioni successive all’11 settembre, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si sono fatti trascinare in un pantano, dal quale sarà difficile districarsi “.

Quanto sono vere queste parole, lette oggi. Non contenti dei risultati ottenuti in Afghanistan, Bush, Cheney e la loro banda, seguiti dai loro leali lacchè britannici, decisero di andare al raddoppio e aprire un nuovo fronte in Iraq, sostenendo che quest’ultimo ospitava fondamentalisti islamici e armi di distruzione di massa. Naturalmente, queste erano bugie palesi. Non c’è mai stata una presenza significativa del fondamentalismo islamico in Iraq prima dell’arrivo degli imperialisti. Né il regime di Saddam possedeva armi di distruzione di massa. Il vero scopo della guerra era quello di accedere al petrolio iracheno, aumentare la pressione sul regime iraniano ed entrare più in profondità nelle aree che erano precedentemente cadute sotto la sfera di influenza sovietica.

Gli americani pensavano che sarebbe stato un affare rapido. Di nuovo, hanno fatto male i loro calcoli. Con la distruzione dell’esercito iracheno, che era stato utilizzato per tenere sotto controllo l’Iran per due decenni, non solo hanno destabilizzato l’Iraq, ma l’intera regione. Da un lato, l’invasione ha rafforzato gli iraniani che hanno costruito una solida base di appoggio tra la maggioranza sciita in Iraq. D’altro lato ha creato le basi per l’ascesa del fondamentalismo islamico sunnita, su cui gli stessi Stati Uniti si sono appoggiati in una certa misura per contrastare l’influenza iraniana, la cui espressione grafica l’abbiamo visto con l’ascesa dell’ISIS nel 2014.

Al giorno d’oggi, i politici e i cosiddetti esperti fanno la fila davanti ai media occidentali per denunciare la situazione che devono affrontare le donne afghane dopo la presa del potere da parte dei talebani. Sono lacrime di coccodrillo ipocrite: nessuna protesta, nel frattempo, per i diritti delle donne in Arabia Saudita. L’Afghanistan sotto l’occupazione statunitense era lontano dal paradiso terrestre descritto dai media.

Secondo Airwars, gli attacchi dei droni statunitensi dall’11 settembre in poi hanno ucciso almeno 22.000 civili, mente altre stime parlando di 48.000 vittime. Un rapporto del 2015 di Physicians For Social Responsibility, valuta che le campagne in Iraq, Afghanistan e Pakistan abbiano portato a 1 milione e 300mila morti! Il rapporto conclude che “questa è solo una stima prudente. Il numero totale di morti… potrebbe anche superare i 2 milioni, mentre una cifra inferiore a 1 milione è estremamente improbabile».

In Iraq, questi “paladini della libertà” che hanno fatto fuoco e fiamme contro presunte armi di distruzione di massa non hanno esitato a usare armi chimiche come il fosforo bianco nei quartieri residenziali di Fallujah. Nel frattempo, sia in Iraq che in Afghanistan, gli stati creati dagli Stati Uniti erano un ricettacolo di banditi e fanatici fra i più corrotti e reazionari. L’imperialismo statunitense non ha esportato la democrazia e i diritti umani in questi paesi. Ha portato il fanatismo religioso, la corruzione, la morte e la distruzione a livelli senza precedenti.

Il cambiamento dell’ambiente

Mentre all’inizio ci furono grandi proteste contro la guerra negli Stati Uniti, nel complesso, le masse americane furono inizialmente spinte ad accettare le guerre dopo lo shock degli attacchi dell’11 settembre. Ben presto, però, questo stato d’animo è cambiato. Secondo Gallup, al suo culmine, nel 2002, il sostegno alla guerra in Afghanistan era del 93 per cento. Da allora, però, le cifre sono costantemente in calo. Alla fine del 2019, dopo 18 anni di combattimenti al costo di migliaia di vite americane e più di un migliaio di miliardi di dollari spesi, 6 americani su 10 hanno affermato che non valeva più la pena di combattere in Afghanistan.

I lavoratori americani oggi sono molto più interessati a migliorare le proprie condizioni che a pagare il conto di guerre senza fine all’estero. Questo cambiamento di umore ha avuto importanti conseguenze politiche.

Nel 2012, la proposta dell’amministrazione Obama di bombardare la Siria è fallita dopo che il Congresso si è rifiutato di sostenerla, con solo il 9% della popolazione statunitense a favore. Nel 2016, quando Donald Trump è stato eletto presidente, una delle sue promesse elettorali più popolari è stata quella di tirare fuori gli Stati Uniti dalle guerre in Medio Oriente. L’opposizione alla guerra ha seriamente ostacolato la capacità dell’imperialismo statunitense di operare nelle modalità a cui era abituato. Qualsiasi grande campagna militare che coinvolgesse truppe di terra avrebbe avuto un grosso costo politico per qualsiasi amministrazione, e come tale è stata esclusa. A ciò si aggiungeva il costo economico degli interventi militari. Entro il 2019, il costo totale degli interventi statunitensi in Medio Oriente è stato stimato in 6,4 migliaia di miliardi di dollari, un ulteriore ostacolo alla volontà di intraprendere nuove avventure militari.

Crisi dell’imperialismo

L’esito delle guerre in Iraq e in Afghanistan è stato chiaro fin dall’inizio, ma sia l’amministrazione Obama che quella Trump hanno continuato a rimandare la decisione finale, non volendo accettare l’umiliazione della sconfitta. Prima o poi, però, il cedimento era inevitabile. Joe Biden è stato giustamente criticato per le modalità del ritiro dall’Afghanistan nell’ultimo mese. La rapida avanzata dei talebani e la caotica evacuazione di Kabul sono state una diretta conseguenza della sua incompetenza e di quella dei vertici dell’esercito. Ma qualunque fossero state le sue modalità, la sconfitta degli Stati Uniti era certa da molti anni. Il ritiro era solo l’ammissione definitiva di questo fatto, che avrà importanti conseguenze.

L’Iraq sarà il prossimo. Che si concluda attraverso un ritiro caotico come in Afghanistan o come parte di un accordo con l’Iran, la presenza degli Stati Uniti in Iraq sulla base attuale è insostenibile. Ma le cose non si fermeranno qui.

Vedere la macchina militare statunitense abbattuta da un gruppo di fanatici talebani con i Kalashnikov incoraggerà altri paesi a sfidare il dominio degli Stati Uniti, come la Cina, la Russia e persino i regimi più deboli come l’Iran. Il risultato è l’opposto di quello a cui miravano i generali entusiasti quando hanno deciso di mostrare la loro forza dopo l’11 settembre. Piuttosto che un’esibizione della potenza militare degli Stati Uniti, l’incompetenza, i limiti e le debolezze dell’imperialismo degli Stati Uniti sono stati svelati, affinchè tutto il mondo lo vedesse. Gli alleati degli Stati Uniti in tutto il mondo avranno ora seri dubbi su quanto possono contare su Washington per un aiuto.

L’imperialismo statunitense è ancora la forza militare ed economica più potente del pianeta. Tuttavia, come abbiamo spiegato, la sua capacità di manovra è stata seriamente ridotta. Di conseguenza, per ora sono escluse tutte le principali campagne militari statunitensi. Sarà invece più propenso a ricorrere alla guerra economica, a operazioni speciali limitate e a campagne per procura. Lungi dal rendere il mondo un posto più sicuro, ciò aumenterà l’instabilità e le tensioni nelle relazioni mondiali. Come un ubriaco il giorno dopo la sbornia, la classe dominante statunitense è ora costretta a fare i conti con i processi che ha messo in moto in precedenza.

Crisi del regime USA

Le conseguenze di questi eventi non si limitano ai rapporti mondiali, ma anche ai rapporti tra le classi all’interno degli Stati Uniti. Quasi 800.000 soldati statunitensi hanno partecipato alla guerra in Afghanistan. La maggior parte di questi è tornata a casa con profonde cicatrici fisiche e mentali, sempre se sono tornati a casa. In un’intervista con Vice, un ex marine che ha combattuto in alcune delle battaglie più dure dell’Afghanistan ha fornito uno sguardo interessante all’umore di molti all’interno di questo livello. Quando l’intervistatore gli ha chiesto se credeva che la guerra fosse stata inutile, lui risponde:

Sì lo penso. Sai quando hai sputato sangue in quella guerra come tutti noi… i ragazzi che non sono tornati a casa… perché? Perché non sono tornati a casa? Ci sono ragazzi di 19-20 anni che non sono mai tornati a casa. Non hanno mai iniziato la loro vita e li abbiamo abbandonati. Abbiamo abbandonato quei ragazzi. E questo fa male“.

La sensazione di tradimento attraversa ogni parola di questa affermazione. Non è difficile immaginare la rabbia che deve pervadere molti di quegli americani comuni che hanno sostenuto le guerre in Afghanistan e Iraq quando si sono resi conto di essere stati ingannati. Dopo vent’anni di guerra, nessuna delle promesse fatte loro si è realizzata.

Piuttosto che un mondo più sicuro e democratico, la furia dell’imperialismo statunitense ha lasciato dietro di sé una scia di barbarie e miseria.

Il fondamentalismo islamico non è stato sconfitto, anzi, con l’aiuto degli Stati Uniti, ha trovato rifugi sicuri che non aveva mai avuto prima in Iraq, Siria e Libia. Iraq e Afghanistan non sono un millimetro più vicini alla democrazia rispetto a prima.

Tutti parlano di un “nuovo ordine mondiale” basato sui cosiddetti valori democratici, americani; termini come “costruzione della nazione”; la “Guerra al terrore” e “l’unicità americana” hanno dimostrato di essere nient’altro che aria fritta. Questi sono problemi seri per l’establishment, che è sempre più visto dagli americani come un branco di bugiardi, opportunisti e ciarlatani incompetenti.

Parlando al podcast di Net Assessment, Christopher Preble dell’istituto conservatore Cato ha lanciato l’allarme:

Abbiamo questo modello di bugie fuorvianti, false o in alcuni casi esplicite [nelle] dichiarazioni relative all’efficacia delle forze di sicurezza afghane. … Il divario di credibilità era il problema dell’era del Vietnam dei funzionari del governo degli Stati Uniti che dicevano cose sull’andamento di quella guerra, ad esempio sulla durata del governo del Vietnam del sud o sull’efficacia di combattimento dell’esercito della repubblica del Vietnam, cosa che si sono rivelate non vera. C’era un divario di credibilità. E quindi non ci si fidava dei funzionari statunitensi. … Il mio punto è che questo problema di credibilità non è limitato alle guerre straniere. Abbiamo un crollo della fiducia nelle istituzioni di questo paese in questo momento. E milioni di americani non sono in grado di distinguere i fatti dalla finzione… C’è un problema di credibilità e sta diventando sta peggiorando. Il popolo americano non crede agli esponenti del governo“.

Queste sono parole di avvertimento che fanno riflettere, provenienti da uno fra gli strateghi più intelligenti del capitalismo statunitense. Mentre la tragedia dell’11 settembre 2001 e le successive guerre in Iraq e Afghanistan hanno inizialmente rafforzato l’atmosfera di patriottismo e di unità nazionale, le sconfitte in quelle guerre si sono aggiunte all’atmosfera di odio e diffidenza nei confronti della classe dominante. La crisi dell’imperialismo statunitense all’estero è anche una crisi del capitalismo statunitense all’interno dei propri confini.

Insieme a fattori come la gestione criminale della pandemia di Covid-19, il calo del tenore di vita, l’incertezza economica generalizzata e il flagello del razzismo, ha alimentato il processo molecolare di rivoluzione che sta avvenendo sotto la superficie. I nodi stanno arrivando al pettine per l’imperialismo statunitense. Si stanno preparando le condizioni affinché la classe capitalista americana debba affrontare la punizione per i suoi crimini – non dai pazzi islamisti che essa stessa ha nutrito, ma dalle masse rivoluzionarie.